Nacque a Cittanova il 29 giugno 1876, da Giovambattista e Maria Angiola Giovinazzo.
Fu il primogenito di otto figli.
Negli anni della prima giovinezza seguì la famiglia in Sicilia, nei trasferimenti dovuti alla professione del padre, magistrato: visse a Nicosia, dove iniziò gli studi ginnasiali e più tardi a Catania, dove frequentò il liceo e si iscrisse alla facoltà di lettere. In crisi intellettuale, interruppe gli studi e si ritirò a Sciacca, dove rimase dal 1898 al 1900, dedicandosi a letture disordinate e alle prime prove poetiche. Nel 1901, trasferitosi a Palermo, riprese gli studi universitari, in cui ebbe come maestro Giovanni Alfredo Cesareo.
Non giunse mai alla laurea, ma negli anni palermitani cominciò a partecipare attivamente alla vita culturale della città: collaborò, infatti, al quotidiano L’Ora e pubblicò un poemetto, Il fonte della vita (Palermo 1901).
Trasferitosi a Roma nel 1909 portò a termine un romanzo a sfondo autobiografico, La grazia, che gli fruttò il premio Rovetta per il biennio 1911-12, a pari merito con Luigi Siciliani.
L’opera, ambientata in un paesino della Calabria, segue la vicenda interiore di un giovane, Lorenzo – in cui facilmente si può riconoscere la fisionomia morale del Gerace – in preda a una profonda crisi di valori che lo porta a interrogarsi con inquietudine sulla vita e su Dio. Questa riflessione spinge il protagonista ad abbandonare i vizi giovanili per convertirsi a una disciplina di umiltà che, una volta trasferitosi a Roma, intende testimoniare in un romanzo.
Ebbe modo di conoscere personalmente il filosofo Benedetto Croce e di frequentarlo assiduamente una volta trasferitosi a Napoli, nel 1912, quando accettò l’impiego propostogli dallo stesso Croce presso la Biblioteca della Società napoletana di storia patria.
Nella raccolta di saggi La tradizione e la moderna barbarie (Foligno 1927), il Gerace espone in modo esaustivo le idee che sono alla base della sua poetica: critico nei confronti della poesia a lui contemporanea, in particolare nei confronti del Futurismo e del frammentismo, sostiene una poesia in cui naturalezza istintiva e costruzione intellettuale arrivino a quella compiuta sintesi stilistica di cui, nella tradizione italiana, il migliore esempio è costituito da Giacomo Leopardi.
A quelle che ritiene le improvvisazioni dell’arte del suo tempo, egli oppone il ritorno alla tradizione ottocentesca e, ancor più indietro nel tempo, al canone classico dell’imitazione. L’imitazione mette il poeta a confronto con la storia, spingendolo ad abbandonare il suo individualismo ed a coniugare creatività e tecnica.
Alla morte del padre, nel 1915, e anche per il deteriorarsi dei rapporti con Croce, il Gerace rientrò a Roma per assistere la madre. Ma non vi rimase a lungo, in quanto l’anno dopo fu richiamato alle armi e, dopo aver seguito il corso accelerato per allievi ufficiali a Torino, venne destinato in servizio territoriale a Venezia con il grado di sottotenente. Interventista acceso, ottenne successivamente di essere inviato alla milizia attiva nel 4° e 5° reggimento di artiglieria a Fortezza, in Alto Adige, quindi, per l’aggravarsi di una malattia intestinale, che lo aveva tormentato fin dall’adolescenza, fu trasferito presso il forte di Mestre.
Ottenuto il congedo, tornò a Roma, quindi, dal 1919, insegnò italiano a Bari nel locale istituto tecnico finché, nel 1921, la legge Croce – che impediva l’esercizio dell’insegnamento a chi non possedesse un titolo accademico – lo costrinse a rientrare a Roma.
Il 20 agosto 1923 sposò Giulia Becciani, da cui ebbe due figli, Giovan Battista e Leonetta.
Nel 1926 ricevette anche un importante riconoscimento per la sua attività poetica: il premio di poesia dell’Accademia Mondadori per la raccolta La fontana nella foresta, pubblicata a Milano solo nel 1928. Nel poemetto che dà il nome al volume, egli rievoca un momento della sua infanzia, quando, presso una fontana, vide suo padre, con le mani disposte a coppa, dare da bere a sua madre ed i due erano uniti da uno sguardo pieno d’amore.
Quell’immagine, come un’eco remota, gli ritorna in mente negli anni della sua giovinezza, quando, perso il padre, egli celebra la madre vecchiarella e la paragona alla Vergine Maria, che nella lirica è definita “fontana al mondo d’ogni dolcezza e d’ogni grazia pia” da cui sgorga l’amore, e ad Afrodite. A Cupido, l’alato figlio della dea, egli chiede in sposa una fanciulla simile alla vereconda madre, a cui possa essere legato da un amore che vada oltre la morte, rifugio ai dolori ed alle ferite della sorte, proprio come quello che univa i suoi genitori.
Nonostante il successo ottenuto al concorso, l’attenzione alla poesia del Gerace, giudicata troppo tradizionale e démodée, svanì presto. L’amarezza che ne conseguì contribuì probabilmente all’aggravarsi dell’ulcera duodenale di cui soffriva da tempo.
Sottoposto a intervento chirurgico, morì a Roma, il 18 maggio 1930.
Il suo paese gli intitolò una scuola, il liceo classico, e commemorò l’anniversario della sua morte il 29 giugno 1932, alla presenza di grandi personalità politiche e letterarie, collocando sulla facciata della casa natale, in via Domenico Muratori, una lapide laureata, con un’epigrafe dettata dal poeta Antonio Anile.